Riflessioni sul senso del fare poetico nell’epoca contemporanea
di Alberto Russo
Nel suo articolo L’ossessione per gli ultimi (pubblicato su Le parole e cose, http://www.leparoleelecose.it/?p=18370), Paolo Febbraro fa rilevare come molti critici e intellettuali importanti abbiano oggi nei confronti della poesia un atteggiamento caratterizzato da un sentimento apocalittico da fine dei tempi. Febbraro cita tre critici (Ferroni, Luperini, Di Stefano), sostenitori dell’idea che con l’esperienza di alcuni grandi poeti del Novecento (Zanzotto, Fortini, Raboni, Magrelli) si concluda irrimediabilmente un modo di esistere autentico, socialmente fondato, della poesia.
È un problema che, a partire dal poetico, conduce a un problema più ampio e di impellente attualità: interpretare il modo di vivere insieme degli individui nella contemporaneità, il discorso che li muove, costruirne una rappresentazione. È un problema affetto da domande semplici ma fondamentali, poiché non cessano di ritornare: il mondo può veramente cambiare? I sentimenti apocalittici che affiorano nel presente sono fondati, o sono l’ennessima proiezione di un reale soggettivo sulla storia? Davvero la poesia può essere più difficile da realizzare in un tempo piuttosto che in un altro?
Febbraro ha molte ragioni per denunciare l’assurdità di un “atteggiamento piangevole”, con i rischi di un dopo di noi, il diluvio di cui esso potrebbe sotteraneamente nutrirsi; ciò non significa però poter pacificamente affermare: “la nostra è una terra desolata, ma la vera novità è che lo è da millenni”. Non si può cioè motivare l’assurdità dichiarando il problema infondato, ovvero evitare di confrontarsi con quanto afferma Luperini: “è l’alfabeto dei padri che è morto, è morta la lingua della poesia” (L’Immaginazione, n. 283 settembre-ottobre 2014).
Tra i poeti nati negli anni venti e trenta del Novecento, se Pasolini e Zanzotto si rivelano oggi i più attuali, è proprio in ragione di un loro investimento assoluto (fuori da schemi di militanza politica) nel confronto con la minaccia di una perdita di senso definitiva del fare poesia. La loro esperienza sarebbe incomprensibile, e già esaurita, al di fuori dell’evidenza (oggi sempre più attuale) di un indebolimento delle possibilità della lingua poetica tradizionale, conseguenza della “catastrofe dell’ordine simbolico” (A. Zanzotto, “Dirti” Zanzotto, NEM, 2013, p. 127).
Certo sarebbe allora inevitabile chiedersi di nuovo, alla luce di questi problemi: che cos’è la lingua della poesia?, problema teorico centrale e a tutt’oggi apertissimo. Accontentiamoci qui di queste osservazioni: le esperienze dei grandi poeti che si sono succedute nei secoli hanno determinato il comporsi di una serie di modi di abitare la lingua che rientrano in uno spazio definibile come “letterarietà poetica” (limitato e rinnovabile a un tempo), una langue che intrattiene fortissimi legami con l’ideale umanistico.
L’ultimo Pasolini ha descritto con grande lucidità l’incompatibilità delle nuove identità di massa e del nuovo discorso sociale, con il poetico, ma è senza dubbio Zanzotto che più di ogni altro nel nostro Novecento ha cercato di assumere e di attraversare questa incompatibilità sul piano della forma, portando la poesia al di là della “lingua della poesia”. Da La Beltà (1968) a Conglomerati (2009), attraverso un’espansione parossistica della potenza del significante, affiancata poi da un movimento di riduzione del significante all’oggetto, la poesia di Zanzotto è testimonianza, da un lato, di una resistenza nel mezzo della “fine di un eone in cui è inclusa la stessa preistoria” (Zanzotto, Le poesie e prose scelte, Mondadori, 1999, p. 1531); ma anche, dall’altro, della possibilità di attraversare gli spazi non-umanistici di verità aperti da questa stessa fine. La morte della “lingua della poesia” coincide con l’uscita della poesia dai modelli immaginari del discorso dominante. I legami con i discorsi dominanti del passato (comprese le relazioni ambigue intrattenute con essi dalle avanguardie) hanno spesso limitato la portata di verità del discorso poetico.
Nell’epoca del trionfo della tecnica e dell’oggetto di godimento, la poesia è costretta a confrontarsi con il proprio fondamento e a vedere il proprio orizzonte, fuori da ogni compiacimento immaginario sostenuto dai sembianti sociali, nel reale non più velabile a cui è confrontato ogni soggetto: l’essere gettato in un mondo umano ormai ricongiuntosi al tempo geologico.
Ecco dunque il paradosso a cui il critico si trova oggi di fronte: nonostante l’epoca offra a un grandissimo numero di individui la possibilità (materiale e culturale) di produrre testi poetici, l’esclusione della poesia dai discorsi sociali dominanti rende molto più difficile produrre una poesia capace di porsi, eticamente prima ancora che esteticamente, all’altezza dei tempi; di porsi cioè in una linea di verità con il reale del nuovo millennio. Incontriamo qui lo spazio nebuloso del presente, a cui giustamente Febbraro incita a guardare. Un presente in cui, è vero, vengono ancora scritti testi poetici eccellenti, ma troppo spesso ancora nell’ormai irriflessa “lingua della poesia”.
L’esperienza zanzottiana è certo un punto ineludibile per cercare di orientarci nel presente, e per influire su di esso creativamente. È dunque a partire da essa che facciamo il nome di un poeta venuto dopo gli ultimi. Le pratiche di riduzione significante che appaiono alla fine dell’itinerario zanzottiano (pseudo-haiku, tracce olografiche etc.) possono guidarci all’incontro con l’esperienza poetica di Stefano Dal Bianco (che di Zanzotto com’è noto è uno degli interpreti più autorevoli); la sua esperienza, fondata su un minimalismo antiretorico, su un’approssimazione riduttiva all’essenziale, sembra assumere pienamente l’implosione di un ordine simbolico che per secoli ha riservato alla poesia un posto privilegiato nel sistema dei generi letterari.
Febbraro ha ragione: “lingua, visione poetica e cultura critica sono consustanziali”. La critica è dunque oggi chiamata a un’alleanza con quei saperi, la psicoanalisi in primis, che lottano per garantire ancora l’esistenza di uno spazio per l’interrogazione sul senso dell’umano, contro l’avanzata annichilente della misura e della medicalizzazione nei domini più fondamentali della vita collettiva. Solo con questa alleanza, alla poesia potrà essere garantito almeno il suo ruolo testimoniale, se di altre pratiche è ormai da tempo quello di creare i modi di abitare i vuoti che il sesso e la morte non cessano, ancora oggi, di spalancare dentro e fuori ogni soggetto.
Ci ritroviamo così, infine, in questa prospettiva: solo chi attraversa in profondità, pagandone soggettivamente il prezzo, il vuoto lasciato dalla “lingua della poesia”, può essere ancora, oggi, eticamente autentico prima che eccellente sul piano estetico, un poeta.