Il racconto dei racconti di Matteo Garrone
di Alberto Russo Previtali
Seguire le linee di sviluppo che dalla produzione precedente di Matteo Garrone conducono al suo ultimo film, Il Racconto dei racconti, richiede uno sforzo analitico. La prima impressione, superficiale, che suscita il film, è infatti quella di una rottura, di un cambiamento radicale di orizzonte creativo. Potremmo spiegare questa impressione con l’impossibilità di inserire Il Racconto dei racconti nella prospettiva stilistica del realismo, dominante nei primi film di Garrone (si vedano per esempio Terra di mezzo e Oreste Pipolo fotografo di matrimoni) e il cui apice è senza dubbio rappresentato da Gomorra.
In una prospettiva realista si inserisce anche Reality, ma si tratta di un realismo problematico, scavato, come per eccesso, da una dimensione derealizzante (che attraversa anche L’imbalsamatore e Primo amore) in cui vengono a tratti toccati i limiti del fiabesco. Per Reality lo stesso Garrone ha parlato, seguito poi dalla critica, di “realismo magico”. È proprio questa seconda dimensione a essersi sviluppata pienamente nell’ultimo film, che può essere ascritto appunto al genere fantasy.
Attraverso questa appartenenza di genere possiamo ricavare alcune osservazioni. Ne Il Racconto dei racconti la dimensione immaginaria in cui nel fantasy vengono ricoperti gli aspetti più cruenti e inquietanti della narrazione, viene costantemente bucata, mostrando il reale che essa è chiamata a velare. Sarebbe forse possibile invertire la formula di “realismo magico” (un “fantastico realista”?), ma ciò che occorre soprattutto registrare è un’intensificazione, in certi punti, attraverso la dimensione “magica”, del “realismo” stesso. Il fantasy offre a Garrone non solo la possibilità di rappresentare visivamente la dimensione orrida, mai ordinaria, delle fiabe (tre immagini: la regina che mangia il cervello del drago marino, la nudità decrepita di Dora che si prepara alla notte d’amore con il re, la scorticazione da viva di Emma ecc.); ciò che gli offre è soprattutto la possibilità di spingere a un più alto grado di realizzazione uno degli stilemi più tipici del suo cinema: la rappresentazione di corpi e volti atipici, fuori norma, in cui il realismo agisce come ciò che fissura un immaginario statico della corporalità. Ne Il Racconto dei racconti la rappresentazione della fisionomia umana è portata a incontrare i suoi limiti (quattro esempi: l’eccesso di pallore dei gemelli, la bestialità dell’orco, la bellezza irregolare della principessa Viola, il nanismo e il cranio deforme di suo padre); ma ancora più in là, attraverso la rappresentazione degli animali immaginari (il dragone, la pulce gigante) sono gli stessi limiti rappresentabili del vivente che si vuole fare emergere.
La derealizzazione nel fantasy di Garrone si realizza dunque a livello del linguaggio filmico e non del suo contenuto. Questa riuscita è strettamente articolata alle strutture delle tre storie (tratte come noto dal libro di Giambattista Basile, Lo cunto de li cunti) su cui è costruito il film. Garrone ne mette in risalto la dinamica fondamentale: la relazione tra i desideri dei personaggi e il potere che essi sono chiamati a incarnare o a sfidare. Potremmo dire che la pervasività del desiderio nel film e il rischio mortale proveniente dalla Legge superegoica (incarnata dai tre sovrani) che accompagna i personaggi subalterni che lo seguono (essendo il desiderio dei sovrani un modo della Legge), sospenda la rappresentazione: tra l’immaginario tipico del fantasy, che nel film tende alla stasi equilibrata dell’immagine pittorica (altro stilema tipico che viene approfondito), e il reale come difformità del vivente, come perturbante al di là della coltre incantevole del fiabesco.
Nel racconto La regina il desiderio di Elias viene represso dalla madre con l’esilio del suo gemello, e il contrasto viene a prodursi tra l’ambiente dorato e protetto della corte e quello sudicio e pericoloso dei bassifondi. Ne La pulce, il desiderio d’amore “sublime” e “cortese” di Viola si realizza, dopo la sovversione del sapere del re da parte dell’orco, nella più abietta e degradata animalità. In principio a Le due vecchie c’è il desiderio del re per Dora, accesosi all’ascolto della sua voce. Questo desiderio genera in lei il desiderio irrazionale di essere davvero amata dal sovrano. L’incantesimo che la fa ringiovanire determina qui il contrasto tra incanto e deformità come coesistenza, nella stessa persona, di una riprovevole decrepitezza e di una bellezza ideale, botticelliana.
Nella scena finale, in cui convergono le tre storie, è proprio il destino di Dora a indicare l’orizzonte di una morale sul desiderio (come prospettiva fondamentale per un’interpretazione del film). Elias e Viola, che hanno sfidato apertamente il potere per seguire il loro desiderio, hanno conquistato la possibilità di abitarlo serenamente, mentre Dora, che ha realizzato il suo desiderio nell’inganno degli altri e di se stessa, vede il reale ritornare a infrangere l’immagine incantevole, e falsa, del suo corpo.
Attraverso questi contrasti, Garrone, come lettore di Basile, cerca di fare del cinema lo spazio di realizzazione della vocazione allucinatoria che abita il fiabesco. “Per il trattenimento dei piccoli” è il sottotitolo del libro di Basile. Il cinema diviene qui il tentativo di realizzazione visuale della fantasia di quei “piccoli” (ovvero tutti gli uomini quando leggono o ascoltano una storia) per cui questi racconti sono scritti.
Se dunque in Reality la ricerca filmica si era attuata soprattutto nel contrasto con la rappresentazione televisiva del genere reality, con la sua falsa trasparenza, ne Il racconto dei racconti si compie invece nel tentativo di portare il cinema, attraverso il genere fantasy, alle sue radici fiabesche e oniriche. Cercare il proprio del filmico nel sogno, ovvero nella coesistenza sempre più dilatata di velamento agalmatico e informe, tra la rivelazione della scabrosità e il suo occultamento figurativo. Un altro modo di abitare la tensione costante e fondamentale che a nostro avviso anima il cinema di Garrone: cercare di fare emergere filmicamente un reale come scarto anatomico tra norma ideale e realtà, capace di fissurare e dilatare il campo dell’immaginario visuale.