Recensione di Daniele Poccia a “Descartes. Una teologia della tecnologia” di Federico Leoni, et al. Edizioni, Milano 2013.
Chi parla nel pensiero cartesiano? La domanda sembra inequivocabilmente malposta. Si dovrebbe rispondere, senza esitazioni e con l’imbarazzo di chi sa di enunciare una semplice tautologia, che si tratta nient’altro che dello stesso Descartes. Ogni filosofia, d’altronde, è associata a un nome proprio, con più forza di quanto non accada nelle scienze della natura, e con, tuttavia, minore indulgenza per la vicenda biografica e privata di quanto succeda nelle cosiddette “arti belle” (o almeno, così è per lo più…). Nonostante ciò, pur parlando sempre per sé, il filosofo tenta lo stesso di elevare la particolarità del proprio dire sino alla alture del puro in sé. Sa di abitare il finito, eppure si sforza di bordeggiare l’infinito. Vive in una certa epoca e nondimeno prende di mira l’eterno. Dunque, per quanto ancorato ad una certa situazione spazio-temporale, la sua parola risente perlomeno di questa aspirazione. La sua parola, insomma, è una parola fratta, divisa nel suo accadere come parola di qualcuno su qualcosa, e che però vorrebbe essere la parola di tutti e su ogni cosa (o, è lo stesso, di nessuno e su nessuna cosa in particolare). Di qui il suo sempre identico dramma, la sua sconfitta inevitabile e tuttavia fruttuosa di nuove e feconde sconfitte a venire. Di qui, insomma, la sua spericolata manovra di annullarsi in un discorso anonimo e che resti tuttavia profondamente il suo.
Non è allora così insensato chiedersi “chi parla” attraverso Descartes – senza per questo autorizzare uno storicismo di maniera, che voglia cogliervi soltanto l’espressione sintomale di un certo contesto storico e geografico. Questa domanda, nel suo carattere volutamente e irriducibilmente paradossale, è in effetti rivelatrice del paradosso medesimo della filosofia. Un paradosso che Federico Leoni, nel suo appassionato attraversamento dell’opera cartesiana, Descartes. Un teologia della tecnologia (et al., Milano, 2013, pp. 61) sembra riuscire a portare in piena luce, giungendo, sia pure in maniera non esplicita, a fornire una risposta alla nostra questione iniziale. A parlare in vece e con la voce di Descartes, ci fa intravedere Leoni, non è altro che quello stesso cogito di cui egli è stato lo scopritore o, se si preferisce, l’inventore.
Dei molti aspetti di originalità che caratterizzano questo libretto (uscito in una collana dedicata ad incursioni extra-curriculari da parte di alcuni affermati studiosi italiani e che è da poco stata rilevata dall’editore Orthotes), uno ci sembra in effetti imporsi con particolare cogenza: l’insistenza sul carattere performativo dell’ego sum, ego existo – come effettivamente si esprime Descartes nelle Meditazioni di filosofia prima. Quello che infatti viene tradizionalmente ricordato come il cogito, in altri termini, è anzitutto dell’ordine di un «gesto» – ci dice Leoni a più riprese, riformulando la celebre tesi di Jan Hittinka –; un gesto che si auto-verifica tutte le volte che lo compio, o, come afferma lo stesso Descartes, una proposizione che è vera “tutte le volte che la pronuncio”. Per questo, dunque, esso sarebbe sempre da ricominciare, mai garantito una volta per tutte, sempre, per dir così, allo stato nascente o embrionale (e in effetti, tra il cogito e l’epigenesi embrionale c’è più di una somiglianza: ma non possiamo qui approfondire). Per questo, la sua infinità attuale (il suo fungere invariabilmente al fondo di ogni pensato) implica senza coincidervi un’infinità potenziale (quella appunto dei molteplici pensati): realizzare il cogito resta un compito, o, meglio, un esercizio, di cui attestano le stesse Meditazioni nel loro andamento “ascetico”. Per questo, infine, lo statuto del cogito ha qualcosa di intimamente paradossale – evento fondativo di ogni sapere che tuttavia non è dell’ordine del sapere; gesto tanto etico quanto – o forse ancora di più – che teoretico in senso stretto. Sempre al di qua o al di là del proprio stesso concetto – in eccesso o in difetto rispetto ad ogni apprensione conoscitiva, il cogito si palesa come la zona di opacità che tuttavia apre la visione, ogni visione intenzionale di qualche cosa.
Questa, in estrema e brutale sintesi, è la feconda aporia su cui porta la nostra attenzione l’Autore. Nondimeno, vorremmo chiederci, che genere di discorso è quello che denuncia o scopre il carattere gestuale ed evenemenziale – irriflesso ed etico: etico in quanto irriflesso – del cogito medesimo? Qual è, insomma, a sua volta l’etica, la postura che lo sorregge? Quale, in breve, il luogo (in senso “trascendentale”, come dicono i filosofi), da dove parla Leoni?
Ricordandoci che, in filosofia, la domanda topologica (concernente il luogo dell’enunciazione) è sempre inevitabilmente una domanda etica (sulla postura, appunto), si vede allora che la risposta ci è fornita, tra le righe, dallo stesso Leoni. Ad un certo punto della sua presentazione, egli fa riferimento al linguaggio come orizzonte di datità dell’ego sum, ego existo – il quale vi si manifesterebbe non certo come una sorta di fondo pre-linguistico, ma come l’altro del linguaggio, come il suo (del linguaggio stesso) rovescio interno. Leoni parla a tale proposito di «linguisticità» del punto archimedo cartesiano – una linguisticità che, precisa, Descartes stesso non poteva vedere. Il «campo puro di ogni esperienza» (sia essa fatta di emozioni, ricordi, immaginazioni…), «l’assoluto all’opera», come si esprime suggestivamente Leoni, sarebbe insomma un’intima esteriorità del linguaggio – una sua “estimità”, avrebbe detto forse Jacques Lacan. Sarebbe anche il suo punto d’impasse, il crinale in cui l’universale mediazione del simbolo si capovolge in una immediatezza tanto più traumatica quanto resta velata, cancellata ed enigmatica.
Ecco, diremmo perciò, da dove parla Leoni, la scaturigine del suo discorso: dalla sommità difficile da frequentare in cui la cosiddetta svolta linguistica (linguistic turn) del pensiero novecentesco constata traumaticamente e in molti modi il proprio limite. Una constatazione, nondimeno, tutt’altro che sterile, se si tiene conto di come apra improvvisamente sul suo presupposto inconsaputo: la natura gestuale del linguaggio stesso, il suo fondamento originariamente pragmatico; l’ombra dinamica che il linguaggio si proietta alle spalle accadendo ogni volta come linguaggio-codice, linguaggio-struttura, linguaggio-sistema (come è incline invece a considerarlo la linguistica più convenzionale).
In altre parole, il cogito cartesiano – il quale non è negabile senza incorrere in quello specifico genere di contraddizioni dette “performative” (come, per esempio, quella consistente nel affermare assurdamente “Io non penso”), contraddizioni in cui il “detto” si scontra con il piano del “dire”(con l’istanza del discorso in atto) – aspettava al varco da tre secoli la filosofia novecentesca, alla prese con il suo specifico trauma (d’altronde la filosofia, come affermava Giovanni Gentile, è sempre “filosofia contemporanea”). L’ego cartesiano, tutto fuorché che un mero oggetto trascendente il pensiero, correlato di una coscienza posizionale (come avrebbe fatto notare il giovane Jean-Paul Sartre), è quindi il luogo di un’immanenza radicale dell’esperienza che tuttavia “ci” (usiamo questa particella non a caso) appare come un altrettanto radicale trascendenza, incircoscrivibile ed inoggettivabile. Insomma, il pensatore per eccellenza del Soggetto, fondatore di quella modernità filosofica che troverà in un kantismo di maniera il suo specifico e intangibile catechismo, sarebbe lo scopritore (inconsapevole?) di un principio che incrina lo stesso dispositivo della soggettività auto-centrata – che addirittura la trascina fuori di sé, in una zona anonima e impersonale, in un locus a non lucendo dove il Soggetto con la maiuscola a capolettera viene meno a se stesso. Come aveva dunque visto giustamente Lacan, in questo cartesiano sino al midollo, il cogito può essere rigorosamente riformulato secondo l’alternativa: “O io non penso, o io non sono”, di cui è facile cogliere il potere eversivo nei confronti di ogni presunta trasparenza coscienziale.
Solleviamo tuttavia una questione: davvero Descartes non si era accorto di tutto questo? Come si reperisce il cogito? Come lo si realizza effettivamente? Lo sappiamo tutti, fin dai banchi del liceo: il cogito si deposita come il residuo indubitabile del dubbio iperbolico, ottenuto, tra prima e seconda meditazione, mediante l’ipotesi neognostica del Genio maligno. Ora, che cos’è il Genio Maligno, con la sua onnipotente volontà di inganno, se non una forma ante litteram di trascendentalismo linguistico? Questo straordinario espediente scettico, cos’altro rappresenta se non un modo per affermare che «l’essere che può essere compreso è linguaggio» (Hans Georg Gadamer), o che «non c’è niente prima dell’Altro» (Lacan), con il necessario corollario circa l’inesistenza di un metalinguaggio o di un Altro dell’Altro – ovvero di una qualche garanzia sulla veridicità di ciò che il linguaggio o l’Altro stessi rendono possibile? Se mi inganno, d’altronde, è perché cartesianamente giudico, ovvero, perché parlo, perché possiedo un linguaggio; perché la mia volontà si “decide” per qualcosa che gli si presenta o no come chiaro e distinto. L’ipotesi del Genio Maligno – l’ipotesi che tutto sia ingannevole, suscettibile di errore – non suppone insomma forse il linguaggio come condizione di possibilità dell’esperienza, in questo caso irrimediabilmente mendace e inaffidabile? Qui, l’invadenza dell’Altro, come nel delirio paranoico, dell’Altro del simbolico con la sua assenza radicale di garanzie, si fa asfissiante. L’inesistenza di un metalinguaggio, di un Altro dell’Altro, diventa il principio di un sospetto generalizzato.
Allora, l’unico modo per sfuggire a questa persecuzione altrimenti senza scampo, è riconoscere il sé pensante in quanto tale come al riparo da ogni errore, guadagnando così un vacuolo di certezza inconcussa, laddove altrimenti non ve ne sarebbe alcuna. Il cogito non è, in questo senso, che il grado zero del dubbio iperbolico, il momento in cui i due bracci dell’iperbole toccano gli assi cartesiani verso i quali dovrebbero per ipotesi tendere solo asintoticamente, dissolvendo così la stessa figura geometrica che essi costituivano. Il cogito è l’inen(e)rrabile – se ci si concede questo barbarismo – che si produce in seno all’estensione massimale dell’eventualità dell’errore (quando la sua frequenza cresce sino ad annullarne di fatto la rilevanza e la gravità). Di questa dinamica, ci sembra, Descartes era profondamente consapevole. Non solo nell’incipit delle stesse Meditazioni, dove non a caso viene da subito evocata la presenza dell’errore nell’esperienza come ciò da cui la stessa indagine filosofica è costretta a muovere; ma anzitutto nella sua teoria dell’errore, dove quest’ultimo è concepito come “un abuso del libero arbitrio” (Adolfo Levi), come un’eccedenza della volontà illimitata dell’uomo sul suo intelletto altrimenti finito. In questa circostanza, l’uomo, errando, somiglia paradossalmente a Dio, di cui condivide appunto quell’attributo di illimitatezza che è la libera volontà. Anzi, laddove al limite non si può che sbagliare (come di fronte al Genio Maligno), come parlare ancora di errore? Come distinguere insomma ancora l’uomo da Dio – nel quale, volontà ed intelletto, entrambi illimitati, coincidono? La vera mistica cartesiana, come sostiene appunto Leoni, è proprio qui, nel cogito: lì, l’uomo e Dio si toccano, diventando indistinguibili; lì, Descartes è già da sempre oltre se stesso, oltre il suo dualismo e la sua metafisica, proiettato nel cielo di una filosofia che se non è perenne, nel senso statico della parola, ha comunque un piede nell’eterno. Lì è il monismo cartesiano, che Leoni esuma così attentamente, nella sua implicazione e differenza di natura con il più noto e vituperato dualismo. Lì, infine, la tecnologia cartesiana, con il suo esplicito progetto di immortalità, e la sua teologia, si scambiano continuamente il posto: la teologia diventa una tecnologia e la tecnologia, una teologia. Il corpo morto del suo meccanicismo biologico si fa corpo glorioso, immortale appunto, o, comunque, potenzialmente tale proprio in forza della sua crescente tecnologizzazione (come oggi appare sempre più chiaramente nella proliferazione di ipomnemata, ovvero, di protesi esterne della nostra memoria, così come di tutti quegli apparati macchinici che supplementano la nostra finitudine). L’epoca che viviamo è cartesiana più che mai, sottolinea giustamente Leoni.
Quel “chi” del quale chiedevamo al principio, allora, non è propriamente un “chi”, ma, piuttosto, una “cosa”, che coincide da parte a parte con il suo (della cosa stessa) evento incessante, con il suo prodursi ogni volta di nuovo in figure sempre inedite. È semmai, avrebbe detto Edmund Husserl (della cui fenomenologia Leoni è un raffinato conoscitore ed interprete e di cui in queste pagine fa ampiamente uso sottotraccia), un «io anonimo fungente». Un “io” dal quale parla da sempre la filosofia, sebbene non sia mai quello di nessun filosofo in particolare, non essendo altrove che lì, nelle parole ogni volta contingenti di questo o quello “scrittore di cose filosofiche” – il quale vorrebbe e non vorrebbe essere insieme tutta la filosofia, nient’altro che la filosofia (e non solo quell’“io” personale, appunto, che lo trattiene malgrado tutto sul bordo delle propria auto-bio-grafia, del proprio parlare e scrivere immancabilmente di se stesso). Ancora una volta, dunque, è su questa sponda irriducibilmente ancipite che ci conduce Leoni.