Angelo Villa, Fabio TognassiContro l’etnopsichiatria

Recensioni di Melissa Idonia e Giancarlo Ricci
al libro di Angelo Villa e Fabio Tognassi,
Contro l’etnopsichiatria. Elementi di critica psicoanalitica applicati all’intercultura,  Poiesis 2016. 

Recensione di Melissa Idonia

Contro l’etnopsichiatria è un testo di critica psicoanalitica applicata all’intercultura. La prima annotazione va al titolo che suona quasi provocatorio. Contro l’etnopsichiatria lascia pensare, infatti, ad un attacco a quella clinica che si muove nell’ambito del discorso interculturale. In realtà, più che un attacco, il testo è una difesa della soggettività quale dato particolare, individuale e inalienabile dell’essere umano che nessun culturalismo può assorbire interamente, pena la mortificazione del soggetto. Il motivo è molto semplice: una prospettiva clinica improntata su un taglio aprioristicamente sociologico mira a privilegiare una lettura delle cause di determinati fenomeni, ad esempio migratori, che non tiene conto delle motivazioni di ogni singolo individuo nei riguardi di una scelta che, per quanto perpetrata da milioni di persone, rimane comunque fondata su una presa di posizione singolare. L’abolizione a priori della diversità a favore di una equiparazione tra l’Io e l’Altro porta ad una esasperazione della logica dell’identico che, in definitiva, elimina l’Altro. Ma l’Altro abita nel soggetto quale parte fondante del suo esserci, è già il suo corpo, il suo inconscio, il suo sesso.
Allora ciò che è necessario in una clinica che si muove nell’ambio del discorso interculturale, non è tanto l’esasperazione della logica dell’identico, quanto ciò che in filosofia, e più esattamente nell’approccio fenomenologico che trova il suo principale rappresentante in Husserl, viene chiamata epoché fenomenologica, ovvero la “sospensione dell’assenso” al fine di cogliere la coscienza quale residuo fenomenologico della riduzione eidetica e con essa rivolgerci alle cose (o all’Altro in termini lacaniani) da “spettatori disinteressati”.
Per dirlo in termini più semplici, l’epoché è la messa tra parentesi di tutti quei giudizi e pre-giudizi, concetti e pre-concetti che non ci permettono di cogliere la cosa nella sua essenza, in questo senso con l’epoché si diventa osservatori disinteressati. Naturalmente questo processo non è mai realizzato pienamente dal soggetto perché ciascun individuo, in quanto immerso nel mondo, si nutre di esso e non potrà mai essere completamente scevro da giudizi.
Lo stesso Husserl distingue nelle esperienze vissute un aspetto soggettivo (il percepire) che chiama noesis, e un aspetto oggettivo (il percepito) che chiama noema o contenuto noematico, e afferma che quest’ultimo resta sempre trascendente. Tuttavia la riduzione eidetica è un impegno o uno sforzo al quale siamo chiamati tutti ogni qual volta ci approcciamo a qualcosa o a qualcuno per la prima volta. È esattamente ciò che dice Freud, contemporaneo di Husserl, quando parla della necessità di accostarsi al paziente liberi da pregiudizi concettuali (come potrebbe essere il luogo geografico di nascita) per ascoltarlo a partire dalla sua individualità, “Uno per uno”.
Si tratta di un impegno nei confronti dell’inconscio il cui statuto, come dicono bene i nostri autori nel testo, non è né essere né non essere ma è qualcosa che appartiene al registro del non realizzato e del non nato. “In questo l’inconscio non rinvia a una logica statica, fissata o prefissata una volta per tutte, ma si apre alla contingenza e alla sorpresa, nell’esatta misura in cui questa dimensione include e si include all’interno di una dimensione più ampia, quella cioè che implica necessariamente un rimando all’incontro”. (pp. 103-104).
Alla luce di ciò, come si dispiega il rapporto tra individuo e collettività? Secondo i nostri autori la relazione tra questi due elementi implica la costituzione di una dinamica tra disparità e omogeneità. Se infatti ogni persona è unica e a se stante, nel momento stesso in cui nasce viene inevitabilmente inserita all’interno di una comunità che, in quanto unità, non può che andare a discapito delle singole persone. L’esistenza del soggetto implica quindi un elemento di potenziale rottura nei confronti dell’omogeneità che la cultura implica, omogeneità che a sua volta costituisce la condizione necessaria per poter esistere in quanto individui.
Esiste quindi un rapporto di stretta complicità tra cultura e inconscio che tuttavia non può e non deve risolversi in un “processo di osmosi”, ovvero in un processo in cui l’inconscio si trova più ad essere agito che ad agire perdendo così la particolarità e individualità che l’approccio analitico mira invece a recuperare.
In definitiva Contro l’etnopsichiatria è un invito a non far dipendere la sofferenza da una causalità comune ma, al contrario, a privilegiare l’incontro individuale quale occasione offerta al soggetto per rintracciare, proprio a partire dal suo malessere, i fili della storia che segnano il suo stare nel mondo.

Intervento di Giancarlo Ricci

 ”Questo è un libro – affermano gli autori nell’Introduzione – che si pone in una posizione decisamente critica nei riguardi della cosiddetta etnopsichiatria, ovvero contro quell’insieme di teorie e riflessioni che, da decenni ormai, tendono a egemonizzare il campo della clinica nell’ambito del discorso Interculturale”. Angelo Villa e Fabio Tognassi, a partire dalla loro esperienza come psicoanalisti ma anche come formatori e coordinatori del progetto “Crossing” (Lecco) rivolto all’accoglienza di giovani immigrati, evidenziano l’importanza di porre l’accento sulla soggettività particolare, individuale, inalienabile di ciascun essere umano. Infatti questo concetto-chiave della soggettività, su cui si basa la tradizione psicoanalitica freudiana, è stata abbondantemente fraintesa dall’etnopsichiatria. Quest’ultima pare piuttosto pervasa dall’idea che occorra utilizzare il criterio del “politicamente corretto” a proposito delle differenze culturali e dei saperi che provengono da culture altre.

In realtà nel situare la parola dell’individuo al centro della cura si fa spazio alla sua soggettività, indipendentemente dalla cultura di appartenenza. Si testimonia di un atto che, nella sua esemplarità, sta lì ad affermare che un soggetto può prendere la parola, può enunciare il proprio disagio, può dire. In altri termini, sottolineano gli autori, “l’atto promuove e sollecita un appello alla libertà, più forte di qualsiasi ingerenza culturale o ‘mentalista’, un appello all’esercizio della libertà intesa come libertà di parola, ‘come azione trasformatrice del soggetto’ scrive Fethi Benslama (Dichiarazione di non sottomissione, Poiesis 2014)”.

Se libertà e responsabilità sono le due caratteristiche, le due facce della soggettività, almeno per come viene promossa dalla psicoanalisi, esse costituiscono il presupposto imprescindibile che ne anima la prassi, per ogni singolo individuo. Da questo presupposto si staglia la tesi centrale e irrinunciabile di questo libro, la cui formulazione si dispiega e si coniuga nei vari capitoli: “ […] ciascun essere umano, prima di essere straniero l’uno all’altro, prima ancora di appartenere a una certa cultura piuttosto che a un’altra, va considerato come portatore di una parola nella quale possa tradirsi e finalmente dirsi, accedendo a quel che gli è più proprio e che paradossalmente non conosce, nel mentre gli risulta fonte di sofferenza”. Ecco il punto nodale che viene proposto dagli autori come un crinale che traccia un’importante differenza rispetto ad altri approcci culturalisti verso lo straniero. In altri termini “è la realtà dell’inconscio, nella sua articolazione significante, al centro del nostro lavoro e non quella mitologia dell’identità, così cara a talune correnti dell’etnopsichiatria, da sola capace di scatenare l’infinita saga delle recriminazioni più disparate e contraddittorie, spesso segreganti o autosegreganti”.

Pur partendo da questa tesi irrinunciabile questo lavoro interloquisce con diverse posizioni classiche dell’etnopsichiatria in modo dialettico. E lancia una serie di domande aperte. Per esempio: “Può la clinica candidarsi ad assumere un ruolo interlocutorio nel rapporto con le culture, contribuire a fecondare un dibattito non imperniato sulle concezioni valoriali o ideologiche o religiose proprie di ciascuna di esse, dare spazio all’avvio e al supporto di una soggettività non alienata, non patologica?”

Il libro affronta, capitolo dopo capitolo, i nodi essenziali e problematici relativi a diverse tematiche. Per esempio la questione della cultura nei sui rinvii all’identità, all’etica, alla logica dell’inconscio; la clinica nei suoi fondamenti che rinviano alla soggettività e alla logica edipica; la nozione di nevrosi, di pulsione, di sublimazione, di disagio; il tema del trauma, dell’immigrazione, dell’alterità. Infine, l’ultimo capitolo, è dedicato a una lettura che interroga l’attualità storica dei nostri giorni a partire dall’idea di esilio e di sradicamento. Scrive Villa: “La migrazione esemplifica uno spaesamento ben più ampio e complessivo, che è sempre più accentuato a vari livelli e che da diverse angolature tocca il cuore stesso dell’edificio identitario, nonché le dinamiche intime che supportano il percorso di costituzione della soggettività. Eccoci, dunque, davanti o, più concretamente, immersi in una crisi che è la cifra stessa del nostro tempo e che rappresenta l’altra faccia del fenomeno migratorio, il suo rovescio misconosciuto. Attualità del disagio, disagio dell’attualità”.
Infine una considerazione che assume la portata di un avvertimento quanto mai attuale: “La storia non è il passato o, più precisamente, non è solo il passato. E’ memoria, sì, ma anche del futuro, di quel che non c’è ancora: di questo ci rende avvertiti l’inconscio”.